pagina precedente - pagina seguente
L’esperienza di Dio sembra però portare con sé una condanna: Saul il re, sarà l’uomo della guerra, sarà l’uomo che dovrà difendere Israele dal nemico, ma il nemico non è uno sono molti e la sfida è continua sempre aperta e quando sembra che la calma riprenda il suo posto non si è certi della sua durata e la domanda “fino a quando” determina nuove insicurezze. Saul ha conosciuto sè stesso, è l’uomo unto dal Signore, ma la sua identità che sembra solida di fatto gli si prospetta fragile, Lui, infatti, è l’uomo che deve combattere ed essere in stato d’allarme sempre.
Potrebbe già essere troppo, ma non lo è perché la fragilità si allarga come il popolo: lui, ormai, è l’uomo del popolo, appartiene a lui. Ma cosa comporta? Deve interpretare, deve esserne portavoce o interpretare per esso la volontà di Dio? Sembra non esserci risposta, anzi sconfitte e cadute come se gli fosse proposto un modello estraneo entro cui entrare e imprigionarsi.
Accade per esempio a Galgala. I filistei, i nemici storici, si sono radunati in un numero tale da ricordare le cavallette e i soldati del re iniziano a nascondersi nelle caverne, non hanno slancio per una battaglia in cui si vedono già morti in partenza.
Si doveva aspettare il veggente, Samuele, ma non arriva e, così, Dio non lo si può invocare eppure va invocato perché la guerra è sua, perché sua è la difesa del suo popolo. Fu così fin dalla liberazione d’Egitto, ma il veggente tarda e i soldati fuggono e allora il re interpreta, agisce per quello che ritiene essere il meglio per la sua gente e offre lui l’olocausto a Dio.
Ed è male, almeno per Samuele che arriva quando tutto è compiuto. L’offerta appartiene solo all’uomo di Dio, a lui, il veggente. Terribile cade, allora, sul capo del re la nuova profezia: “il tuo regno non durerà. Il Signore si è già scelto un uomo secondo il suo cuore e lo costituirà capo del suo popolo”.
Il rapporto con Dio diventa pesante, è occasione di ansia e non di pace.
Un Dio che si ferma ai minuti, un Dio che vuole mettere alla prova attraverso il ritardo di un suo servo, un Dio che chiede di essere seguito anche quando l’evidenza è un’altra. Un Dio che vuole insegnare, ma che sembra farlo attraverso il capriccio o il puntiglio, suo e del suo profeta.
Il rapporto con Dio sembra generare ansia, un’ansia che è dentro la chiamata di Dio, perché Dio parla a un uomo, alla sua vita e quando chiama, chiama perché si viva dentro la vita e dentro la vita ci sono le persone, le cose, le azioni, i progetti cioè la fatica, l’ambivalenza, cioè il sentirsi strattonato da emozioni contrastanti.
Un conto è la fede vuota, fatta di parole e di pensieri e di sentimento e un conto è la fede fatta di storia. La storia qui non vede solo un padre Abramo che parte per un cammino, ma vede un uomo Samuele che parla a nome di Dio a un altro uomo, Saul: la fede in Dio si aggroviglia a quel rapporto.
Chi è quel Samuele che parla a Saul, che lo cerca e poi lo abbandona? E’ veggente, ma è anche l’ultimo di una serie di condottieri di Israele, uomini scelti direttamente da Dio al momento da Lui ritenuto opportuno. Erano chiamati giudici, erano uomini eccezionali che, quando Israele non era regno ma una confederazione di tribù, con il loro carisma sapevano aggregare, unire e portare il popolo alla riscossa in guerre di liberazione dai popoli che di volta in volta li conquistavano.
Ora Saul è il re, è lui l’unto, ma è un re che porta sempre con sé l’ombra di un altro: Samuele, la figura forte, amata e ascoltata dal popolo. Saul si deve misurare con il valore dell’altro, ma anche con l’invadenza dell’altro perché il veggente ordina a nome di Dio ed entra nelle scelte che competono al re. Saul sembra anticipare il tema della laicità dello stato, sembra volersi affrancare da una sorta di fondamentalismo, di intromissione clericale e Saul sembra voler affermare il diritto e l’identità del ruolo. Saul vuole smarcarsi, ma nel contempo sente il bisogno, come tutto il popolo, di quel riferimento carismatico.
Ma Samuele è così limpido, così puro? Oppure il suo messaggio è intriso della sua povertà umana? Lui ha due figli, potrebbero essere i suoi eredi, ma non valgono nulla, sono corrotti e godono dell’amicizia dei pessimi, per questo il popolo spinge e quasi obbliga Samuele a scegliere un re, uno che sia la garanzia dell’unità per tutto il popolo. Si tratta solo dell’esito della sfiducia nei confronti dei figli oppure qualcosa si è appannato nel rapporto con Dio, è forse subentrata una leggera nebbia di sfiducia?
Il re viene comunque scelto ed è Saul, ma Dio e Samuele sono stati forzati. I sentimenti personali di Samuele, appesantito dal rigetto dei suoi figli, potranno essere ombra nel suo futuro rapporto con Saul? Oppure sarà Saul a nutrire immotivatamente questi sospetti?
Ciò che è certo è il fatto che talvolta l’esperienza di Dio si può fare decisamente pesante e sofferta. Sembra non permettere la possibilità della gioia.
[Prima di leggere la pagina seguente, puoi leggere 1 Samuele 13.1-15 che trovi qui]