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Il messaggero della felicità e quello della disperazione sono sempre al galoppo, sono là nel tuo orizzonte, là in fondo.
Loro galoppano, sono lontani e tu non riesci a distinguerli e non sai quali dei due ti stia correndo incontro, ma, attento, perché ogni tua scelta, ogni tua decisione che tocca la roccia profonda della vita, ogni tua decisione che tocca il mistero di Dio e di ciò che tu sei, ti farà scorgere diversi segnali da cui potrai riconoscere il messaggero in corsa.
Tolstoj, non fugge da quell’orizzonte e crede di aver visto l’insegna del messaggero.
Perdere Dio è ferro rovente che piaga.
Da un pezzo si racconta l’antica fiaba orientale del viaggiatore sorpreso nel deserto da una belva inferocita; per salvarsi dalla belva il viaggiatore si precipita in un pozzo asciutto, ma ecco che sul fondo del pozzo scorge un drago che spalanca le fauci per divorarlo. Il disgraziato, non potendo uscir fuori per non finire sbranato dalla belva e non potendo lasciarsi cadere in fondo al pozzo per non venir divorato dal drago, si aggrappa ai rami un cespuglio selvatico che cresce in una fenditura sul fianco del pozzo, e si sorregge ad esso. Ma egli sente che la presa gli manca e capisce che ben presto cadrà vittima della morte che lo minaccia da ogni parte; tuttavia continua ostinatamente a restare aggrappato e intanto vede due topi, uno bianco e l’altro nero, che da una parte e dall’altra del fusto del cespuglio a cui egli si aggrappa, hanno cominciato a roderlo, tanto che da un momento all’altro il cespuglio verrà divelto ed egli precipiterà nelle fauci del drago. Il viaggiatore vede tutto questo e capisce che la sua fine è inevitabile, ma guardandosi attorno, stando sempre così aggrappato, vede delle gocce di miele sulle foglie del cespuglio e riuscendo ad arrivarvi con la lingua, le lecca. E così anch’io mi sorreggevo ai rami della vita, sapendo che il drago della morte mi attendeva inesorabile, pronto a sbranarmi, e non riuscivo a capire perchè dovessi subire un tale supplizio. Cercavo ancora di leccare quel miele che prima mi piaceva tanto, ma ora esso non mi attirava più, e intanto il topo bianco e quelIo nero continuavano giorno e notte a rodere il ramo cui mi aggrappavo. Scorgevo chiaramente il drago sotto me e ormai il miele non era più dolce per il mio palato. Vedevo una cosa soltanto: il drago implacabile e i topi e non potevo distogliere lo sguardo da essi. E questa non è una favola, bensì una verità autentica e innegabile, comprensibile a tutti. L’antico inganno delle gioie della vita, che un tempo aveva attenuato l’orrore del drago della morte, ormai non m’illudeva più. Per quanto mi ripetessi: “Tu non puoi comprendere il senso della vita, non pensare, vivi!”, non potevo farlo perché l’avevo fatto anche troppo in passato. Ormai non potevo fare a meno di vedere la notte e il giorno che s’inseguivano frettolosi e mi avvicinavano alla morte. Vedevo soltanto questo, perché solo questo è verità e tutto il resto non è che menzogna.
QueIle due gocce di miele che più a lungo delle altre avevano fatto distogliere lo sguardo dalla crudele verità - e cioè l’amore per la mia famiglia e l’amore per lo scrivere, che io chiamavo arte - non avevano più nessuna dolcezza per me. “La famiglia...”, mi dicevo, “ma la famiglia sono la moglie e i figli; sono anche loro degli uomini e anche loro si trovano nelle stesse condizioni in cui mi trovo io; anch’essi devono vivere nella menzogna o rassegnarsi a guardare in faccia la terribile verità. Per cosa devono vivere? Perché io dovrei amarli, allevarli, proteggerli e tutelarli? Per far provar loro la stessa disperazione che è in me o per farne degli sciocchi? Amandoli, io non posso nascondere loro la verità, giacche ogni passo verso la conoscenza è anche un passo verso quella verità. E quella verità è la morte”.
(L. Tolstoj, La confessione, Sugarco edizioni, pp. 48-49)