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C’è una piccola strada che si apre in mezzo agli alberi.
Una strada che sembra portare lontano anche se lei è breve.
Sarà il fascino della vegetazione che sembra fare della piccola strada una via che si perde in un bosco infinito, saranno le piccole pieghe che prende come una bella signorina che ondeggia camminando, sarà una cosa o sarà l’altra ma percorrerla è come uscire dal tempo, è come entrare in un altro mondo, forse quel mondo infinito del nostro io che inesplorato attende con il suo mistero la nostra navigazione.
Le strade, si sa, sono fatte per essere percorse con i piedi, con la forza delle gambe, ma anche con i pensieri, con i sogni e quelle vie portano con sé o ti portano a dei segnali, a dei segni: li vedi, li interpreti, ritrovi la forza, ritrovi il motivo e riprendi il cammino.

E’ strana quella via pulita e riaperta dal cuore e dalle mani di alcuni, è strana perché arriva a un luogo e sembra dirti: “è qui che dovevi arrivare” e mentre lei svolta e se ne va’ , tu rimani ad ascoltare il tuo cuore che da lì riprende il suo cammino.
Da quella via, fu una mattina, venne un uomo di età matura con una giovinezza non dimenticata dal corpo o persa nel passato, venne camminando piano non sapendo del luogo che pure andava cercando.
Lo possiamo descrivere come spinto da qualcosa? Forse da qualcuno. Non si sa, non si può dire eppure quando le anime che corrono verso il cielo sono di mamme qualcosa si può dire o forse sperare.
Fu, dunque, una mamma volata in cielo a suggerire e a spingere al cammino? Certo è che a quella chiesa si arrivò.

“E’ lei don Alberto? Mi può dedicare un minuto?”.
E il minuto divenne tempo, corsa di minuti sul quadrante dell’orologio che furono meno di un minuto, un lampo si potrebbe dire, nella luce di segni, nella luce del mistero di quella via e della sua chiesina seduta come principessa ai suoi lati, nell’attesa.
“E’ forse meglio che la tenga lei”, disse, porgendo una piccola teca contenente delle reliquie.
“Era di mia mamma, aveva una fede grande, ma grande davvero e ora che non è più con me nel mettere a posto le cose sue, l’ho trovata”.

Uno può arrivare spedito presso la casa parrocchiale, suonare il campanello e se dalla gentile segretaria viene a sapere che il parroco non c’è potrà abbozzare un sorriso, o un sospiro di delusa seccatura, ma alla fine o lascerà lì il suo messaggio oppure sospirando potrà dire: “ripasserò”.
Possibile, certo sempre possibile, ma molto più difficile che si chieda del luogo , ci si faccia spiegare e con le poche notizie ricevute mettersi alla ricerca per trovarsi su quella piccola strada in mezzo agli alberi.

Certamente chi è uomo rimane uomo e non può essere altro, ma la mente è libera e non conosce schiavitù. Per questa sua libertà ricordando ha la facoltà di rileggere i suoni, i colori, le parole di ciò che visse e ricordando si ritrova nel piccolo stanzino a mettere ordine e poi ritorna all’altare per prendere l’ultima scopa e rivede quella figura illuminata di spalle dalla luce della porta. La rivede e si accorge che non la vide entrare che la trovò lì come apparsa e che altrettanto velocemente dopo il commosso saluto ebbe a scomparire.
E’ evidente che se uno è nello stanzino non può accorgersi che un uomo in silenzio è entrato nella chiesa ed è evidente che uscendo dallo stanzino la persona risulti agli occhi come apparsa, si sa è evidente che sia così, ma la mente può riprendere le cose e vederle come segni, i segni di un uomo, della sua mamma di cui non si sa e non si potrà più sapere neppure per un altro saluto o per un altro incontro.
Con il ricordo di un uomo apparso nella penombra della navata poco distante dall’altare e poi scomparso, ho guardato commosso la piccola teca che tenevo fra le mani ed esaminandola più attentamente ho potuto anche leggere il nome del santo di cui portava il ricordo e la protezione: santi martiri Gervaso e Protaso.

Ho guardato la luce del sole e ho guardato, guardato non solo sentito, il calore del sole che entrava nel corpo ed è stato come se le anime sepolte in quella terra intorno alla chiesa e il dolore di quelle morti avessero iniziato a parlare.
La mia fantasia ha sentito presente la grazia, la bestemmia, la ribellione e la rabbia, l’affidamento che senza dubbio colorò di diversi colori quelle morti di peste e ho visto mamme sane entrare in quel lazzaretto per non lasciare morire soli i loro piccoli e uomini innamorati e donne innamorate legati da un ultimo abbraccio pieno di lacrime. Mi è parso di capire che dicessero della gioia per le nostre preghiere che avremmo recitato lì, mi sembrava dicessero che così anche loro erano tornati ad essere quello che da sempre erano: parte della nostra comunità, parrocchiani della parrocchia di san Gervaso e Protaso. Mi è sembrato che volessero farmi percepire la festa che si andava facendo in cielo perché quando una comunità ospita con sacrale rispetto il dolore e la sofferenza lì vive la Chiesa del Crocifisso.

Mercoledì sera terminato il rosario tutti questi sentimenti, questi pensieri o questi sogni e illusioni sono tornati in mezzo a noi attraverso la luce.
Nel buio della sera, ormai calata, decine e decine di lucciole, in numero che non si vedeva da anni, hanno illuminato la via e non solo quella.
Ad esse si confondevano le decine di luci delle torce elettriche che guidavavano i passi attenti tra i sassi della via.
Luci volteggianti in imprevedibili disegni, una via, case che attendono il ritorno e noi che qui ne stiamo parlando... o che stiamo solo fantasticando?

don Alberto