2011

Gioia? (II domenica di Avvento)

Un legame singolare


Nella seconda domenica di avvento si propone il capitolo 1 dal versetto 1 all’8 del Vangelo secondo Marco. Il testo lo trovi qui.

Giovanni il Battista che prepara all’incontro con il Signore, sulle rive del Giordano, citando Isaia, proclama: “Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri. Cosa significa raddrizzare e preparare?
Raddrizzare i sentieri non è una cosa che viene dopo l’annuncio del Vangelo: ascolto le parole del Signore e poi sento che devo raddrizzare i sentieri della vita. Sembrerebbe normale fare così, invece Giovanni ci dice che per preparaci all’incontro con il Signore dobbiamo raddrizzare le cose prima.
Possiamo dire, allora, che c’è un raddrizzare del “prima” e uno del “poi”, dove ciò che determina il prima e il poi è chiaramente l’incontro con il Signore.
Il raddrizzare i sentieri del “prima” coincide con la grande domanda sul senso di noi stessi e sul senso dello scorrere dei nostri giorni.
Raddrizzare i sentieri per creare la possibilità dell’incrocio con il Signore ha un contenuto: il senso religioso cioè l’apertura del cuore alla possibilità, allo stupore che interroga, all’orizzonte tenuto sgombro per cogliere attraverso i segni la presenza di Uno che sia la risposta alla domanda della vita. Cioè raddrizzo i sentieri se non ritengo cosa sciocca e da adolescenti pormi la domanda, mantenere nel cuore un’inquietudine che deriva da una fame di verità e di bellezza che le cose che si hanno, sia pure care e custodite, non sono in grado di soddisfare.
Mantenersi in questa tensione e disponibilità non è cosa facile e non è di per sé fonte di gioia, ma lo diventa piano piano quando si è attraversato il deserto delle risposte, il gelo del timore di essere fuori dal mondo e dalla logica condivisa. Diventa gioia quando intravede il senso cercato, ma si tratta di una gioia che rimane potenziale, un poter essere nella gioia. Una gioia assaporata più per “profumo” che per sostanza.

C’è, poi, il raddrizzare i sentieri del “dopo”, del dopo l’incontro con Cristo e la sua Buona novella.
E’ il raddrizzare della conversione continua. Un brano del Magistero di Giovanni Paolo II ti aiuta a comprendere questo passaggio:
“L’annunzio della Parola di Dio mira alla conversione cristiana, cioè all'adesione piena e sincera a Cristo e al suo Vangelo mediante la fede. La conversione è dono di Dio, opera della Trinità: è lo Spirito che apre le porte dei cuori, affinché gli uomini possano credere al Signore e "confessarlo". Di chi si accosta a lui mediante la fede Gesù dice: "Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato".

La conversione si esprime fin dall'inizio con una fede totale e radicale, che non pone né limiti né remore al dono di Dio. Al tempo stesso, pero, essa determina un processo dinamico e permanente che dura per tutta l'esistenza, esigendo un passaggio continuo dalla "vita secondo la carne" alla "vita secondo lo Spirito". Essa significa accettare, con decisione personale, la sovranità salvifica di Cristo e diventare suoi discepoli.
A questa conversione la Chiesa chiama tutti, sull'esempio di Giovanni Battista, che preparava la via a Cristo, "predicando un battesimo di conversione per il perdono dei peccati", e di Cristo stesso, il quale, "dopo che Giovanni fu arrestato,... si recò in Galilea predicando il Vangelo di Dio e diceva: "Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al Vangelo"". (Redemptoris Missio 46).

E’, questo, il cammino che conduce, rinnova e approfondisce l’incontro con il Signore. La gioia deriva da questo incontro e, nell’incontro, da gioia potenziale, da gioia che potrebbe essere, si consolida in gioia vissuta e sperimentata.
La gioia cristiana non ha molto a che fare con la sensazione emotiva di essere felice, o di essere tranquillo, o in pace con se stessi ed è anche lontana dalla forza imperturbabile dello stoico.
La gioia cristiana è la gioia di un incontro avvenuto e che avviene sempre più profondamente.
Un incontro che non è dato una volta per sempre perché posto dentro un cammino di crescita e di maturazione, un cammino che per la nostra natura è fatto di passi in avanti, di passi indietro, di soste di paura e pigrizia, di riprese, un cammino, cioè, di conversione.
E’ qui che si incrociano paradossalmente due esperienze che sembrano escludersi l’un l’altra: fatica-dolore e gioia.

La gioia deriva dall’incontro vissuto con Cristo e questo incontro chiede la sequela e la sequela chiede l’abbandono di noi stessi, del nostro egoismo, della nostra piccineria, chiede il morire di noi a noi stessi e il morire non è facile, non si muore a sé stessi con la gioia e sorridendo, la gioia la si acquisisce, per dono, nel tempo: più forte diventa il legame con Cristo e più si radica la gioia. La gioia che noi possiamo sperimentare è segno della risurrezione che avviene sempre dopo l’orto del Getsemani e la salita del Calvario. Ecco perché nella vita spirituale la correzione, il percepire il proprio limite, l’obbedienza alla Chiesa non toglie la gioia e non la contrasta. Sarà contraddizione alla gioia emotiva e sentimentale, ma fondamento della possibilità della gioia di sostanza.

Mi è capitato di incontrare persone che hanno saputo attraversare situazioni dolorosissime che le hanno segnate nei sentimenti più profondi. Queste non dicono: “sono sempre stata nella gioia”, ma testimoniano che dentro alla “morte” interiore subita hanno percepito per grazia la presenza del Signore. Nella sofferenza si sono affidate al grande criterio che è Cristo e nell’abbandono dei sentimenti di rivalsa, rancore e vendetta (ed è la seconda morte dopo quella del dolore subito) e abbracciato il perdono hanno conosciuto la gioia della comunione con Dio, una gioia intima più forte dell’incomprensione e del male che tremendamente fedele continuava nella sua opera di afflizione.

Il resto che si può dire o pensare sulla gioia cristiana può rischiare di essere solo poesia pericolosa perché se si tratta di una gioia che alla fine trattiene dalla quotidiana e seria volontà della conversione rischia di essere solo farina del Male il quale sa assumere mille maschere pur di trattenerci dal cammino dietro al Signore e a questo proposito cosa ci sarebbe di meglio del sentirsi in pace e per questo seduti al punto da cacciare via ogni invito al cammino come inopportuna e stonata inquietudine?

Qui puoi scaricare il testo

Polveri sottili e porte chiuse

A Milano come in altre città, il livello delle polveri sottili ha raggiunto il doppio del massimo consentito e di qui per ogni città il sindaco si è ingegnato in soluzioni tampone.
A Milano fra le tante soluzioni è anche arrivata l’ordinanza di tenere chiuse le porte dei negozi e degli uffici pubblici. Qui non è il luogo e non c’è neppure la competenza per dire se il provvedimento sia efficace o meno, ma questo non impedisce di prendere spunto dall’ordinanza per una considerazione sulla vita.
Quando è inverno e il riscaldamento è acceso è questione non solo di prudenza ma anche di educazione, una volta entrati o usciti, di richiudere la porta che si è aperta.
Per ottenere questo atto di semplice attenzione quotidiana occorre un’ordinanza del sindaco. Il normale diventa evento d’eccezione.
Ecco, sembra che noi si sia fatti così: rendiamo straordinario e meritevole di plauso ciò che è assolutamente normale.
E, così, mentre il fare la volontà di Dio è cosa che il Signore consiglia come normalità, noi ci sentiamo eroi per qualche messa partecipata nel mese, per un segno di croce fatto prima di andare a letto, per qualche centesimo dato a un povero e come creditori nei confronti di Dio restiamo in attesa permalosa di un contraccambio da parte sua.
Vangelo: parole di vita vera o antologia delle ordinanze del sindaco-Dio?

Diritto di morire?

E’ sufficiente mettere la parola “diritto” vicino ad un altra per affermare che tale diritto va difeso, tutelato, legiferato ecc.?
Apparentemente sembrerebbe di sì: diritto di morire, si dice, ed è verità ritenuta assodata perché quella parola “diritto” da dignità di esistenza, certezza di verità.
E se dovessi dire: diritto di vendetta? Andrebbe ancora bene? Spero di no. E perché non andrebbe bene? Perché non basta mettere diritto vicino a vendetta per darle dignità di esistenza, certezza di verità. Ciò che dà diritto ad una cosa è un insieme di valori cha sta dietro alla parola diritto ed è un “mondo” che, forse, occorre visitare prima di essere certi che l’abbinamento sia legittimo.
A questo proposito potrebbe risultare grottesco che una società proclami il diritto di morire e non quello di vivere. Il diritto di morire per tutti (naturalmente per coloro che lo chiedono), quello di vivere no, per il semplice motivo che quelli che sono nella pancia della mamma non possono esprimere la loro opinione.

Naturalmente si obietterà che chi chiede di morire è un uomo e una donna, chi invece è nella pancia delle mamme nelle primissime settimane o mesi non è ancora né uomo né una donna. Già, che sciocco che sono, come posso dimenticare che dalla pancia delle mamme possono nascere bambini, gatti o zucchine?

Quando un servizio televisivo può far riflettere

Su Rai storia si è potuto vedere un interessante servizio sulla repubblica di Salò. Nel corso del documentario si è cercato anche di dare voce a chi si arruolò nell’esercito di quella tragica repubblica.
Delle motivazioni che i giovani di allora portavano ne ricordo tre: lo scandalo per la vile fuga del re a Brindisi, la fedeltà alla parola data a un alleato e infine il mito della “buona morte” dentro cui fin da bambini erano cresciuti. E “buona morte” era morire per la patria.

Mentre ascoltavo mi è passata nella mente la maggioranza di quei giovani di allora che ogni domenica si raccoglievano a messa ad ascoltare la Parola di Dio o che frequentavano i campi di calcio degli oratori e le catechesi dei loro preti.
Con quelle immagini nella mente come sovra impresse sono passate le parole “buona morte” e “fedeltà all’alleato” e con sgomento ho pensato anche a noi oggi.
Si può stare seduti per anni ad ascoltare con le orecchie le parole del Vangelo, ma con il cuore sordo. Si può ascoltare e celebrare i misteri di un Dio che muore per salvare e non per uccidere e si possono anche ripetere le preghiere che la liturgia ci mette sulle labbra senza farsi minimamente scalfire, senza che quelle parole diventino orizzonte di valori, provocazione e rilettura dei criteri secondo cui si giudica e si progetta la vita.

Quando un cristianesimo si fa rito che non interpella la vita, la medesima vita la si costruisce acriticamente su criteri che la cultura dominate o l’ideologia dominante in modo subdolo o sfacciato sa instillare e imporre.

La Parola potrebbe essere (e dovrebbe essere) garanzia di libertà di quel pensare che può grazie ad essa volare anche quando la società stende delle reti per tenere tutti in basso dove facilmente poter controllare tutto.
A questo ascolto con la vita si preferisce, invece, ridurre la fede a vicenda “di sacrestia”.
Quando la chiesa esprime giudizi su temi quali la bioetica, gli embrioni, i matrimoni fra omosessuali ecc. ci offende il solito ritornello che da parte della politica li accompagna a commento: “la chiesa non deve interferire ecc...”, ma, a questo punto, la domanda potrebbe essere: in sacrestia ci mettono o ci stiamo già per nostra volontà quando non si tratta di “massimi sistemi” ma del vivere quotidiano, quando rinunciamo di stare di fronte ad una Parola capace di entrare nella vita e nella storia, capace per questo di creare condizioni di vera libertà e non di condizionamento?

Dove ci ha condotto la Parola da Pasqua fino ad oggi

Le letture di questo tempo ci permettono un cammino dentro al grande mistero della Chiesa.
La Chiesa: questa sconosciuta. Che occasione preziosa ci viene offerta dalla Parola di Dio.

1. Triduo Pasquale e Domenica di Pasqua.

Il nostro cammino vede fortemente legate le tappe significate dal Giovedì Santo e dal Venerdì Santo come
puoi leggere qui dove l’uno rivela reciprocamente l’altro.
La Domenica di Pasqua e la Veglia del sabato che le appartiene da un lato ci aprono alla speranza come ha insegnato Benedetto XVI
(la trovi qui) dall’altro ci lasciano con la tomba vuoto, con il silenzio che interroga.
A quella tomba sa sostare l’amore che condivide e a quell’amore ciò che era silenzio si fa parola, puoi utilizzare
questo strumento.

Allo scandalo della tomba vuota, al suo silenzio si tornerà nella terza domenica di Pasqua come vedrai di seguito.

2. Nella seconda domenica di Pasqua (anno A) abbiamo letto il brano del Vangelo dove Tommaso, non confidando nella testimonianza dei discepoli, dichiara di poter credere al risorto solo a una condizione: mettere le mani, il dito nelle sue piaghe.
Tommaso, cioè, dichiara che ciò che lo interessa è solo ciò che può condurlo a speranza e a salvezza e questo è possibile a una condizione: a risorgere deve essere il Verbo fatto uomo, Gesù vero uomo e vero Dio. Ciò che deve essere risorto è quell’uomo Gesù che ha dato tutto per amore. A risorgere deve essere quell’Amore incarnato. Se risorge lui allora è possibile per tutti la via dell’amore e si poteva comprendere perché Cristo avesse detto: io sono la via, la verità, la vita.
Ecco Tommaso mette il primo tassello nel mosaico della realtà della Chiesa. Perché ci sia, perché sia possibile l’evento della comunione occorre ciò che la fonda: la vittoria di Cristo e l’esperienza personale di lui. Qui puoi leggere il brano: Giovanni 20,19-31


3. Se è vero che è l’esperienza viva di Gesù che genera una vita nella comunione, è anche vero che è attraverso la Chiesa che ci è reso possibile l’incontro con Cristo. Quali sono gli elementi che fondano la Chiesa?
Il nostro attivismo, il moltiplicarsi di feste, gite, momenti culturali? Questi sono elementi umani secondo cui si manifesta la vita della chiesa, ma non ne sono gli elementi qualificanti.Gli elementi essenziali per la sua vita sono altri e li trovi espressi sinteticamente dalla prima lettura della seconda domenica di Pasqua.
Qui puoi leggere il brano: Atti 2,42-47
Si comprende perché la Chiesa sia descritta nei termini riportati da Luca nel libro degli Atti se si ricorda che secondo quei termini è vissuto Gesù Cristo.

4. Il cammino può sembrare difficile, ma non possiamo nasconderci portando a giustificazione la nostra debolezza o il fatto che non avendo studiato non siamo in grado di comprendere la parola del Signore, così come ci ha ricordato la prima lettura di sabato nell’ottava di Pasqua.
Qui puoi leggere il brano: Atti 4,13-21

5. Non possiamo nasconderci dietro ai nostri limiti perché chi edifica la Chiesa e ci rinnova nel profondo è solo e unicamente Cristo che continua a operare in essa e per essa attraverso l’azione del suo Spirito.
Ciò che permette alla Chiesa di crescere e di essere difesa da tutto ciò che la può inquinare o impedire, è la docilità allo Spirito Santo, è la rinascita in Lui (cioè una nuova capacità di leggere e interpretare la realtà), è l’ascolto di questo grande maestro interiore.
Dire di non essere capaci è accusa a Cristo, al suo Santo Spirito e implicita confessione della nostra colpevole autonomia.
Puoi leggere i seguenti brani, prima lettura e vangelo del lunedì e il vangelo del martedì della seconda settimana di Pasqua:
Qui puoi leggere il brano: Atti 4,23-31
Qui puoi leggere il brano: Giovanni 3,1-8
Qui puoi leggere il brano: Giovanni 3,7-15

6. Questa vita nuova, questa rinascita, il suo annuncio non può essere contenuta e imprigionata da nulla.
Non dobbiamo avere paura delle difficoltà e delle sconfitte se queste ci intralciano sulla via, segnata per noi e per la sua Chiesa, da Cristo.
Leggi la prima lettura del mercoledì della seconda settimana di Pasqua: Atti 5,17-26.
Prosegui con la prima lettura del giovedì della seconda settimana di Pasqua: Atti 5,27-33

Cristo e la vita in Lui sono la luce e come la luce genera la linea d’ombra e fa emergere, separandolo, il buio, così la Parola di Cristo e la sua Presenza sono, per il fatto stesso di essere, giudizio sul mondo. Giudizio nel senso di forza capace di fare emergere la linea d’ombra, la linea che separa il male dal bene, la menzogna dalla verità.
Una forza che rivela noi stessi ai nostri stessi occhi.
Leggi il Vangelo del mercoledì della seconda settimana di Pasqua: Giovanni 3,16-21

7. L’annuncio della Buona Novella e la vita della Chiesa, nutrita dall’eucaristia (vedi il Vangelo di venerdì della seconda settimana di Pasqua: Giovanni 6,1-15) che ne scaturisce non entrano necessariamente in un mondo negativo e nemico. Come ci insegna Benedetto XVI all’uomo è data la ragione capace di indagare e aprirsi cordialmente al Mistero, di mantenersi aperta alla possibilità.
Leggi la prima lettura di venerdì della seconda settimana di Pasqua: Atti 5,34-42.

7. La comunità cristiana è il luogo del cammino, non della perfezione in atto. La forza della comunione non sta nel non avere a che fare con la debolezza, ma nel riuscire, alla luce dello Spirito Santo, ad attraversare anche la sconfitta del peccato per una maturità di fede più piena.
Leggi la prima lettura di sabato della seconda settimana di Pasqua: Atti 6,1-7.
Leggi anche il Vangelo di sabato della seconda settimana di Pasqua: Giovanni 6,16-21

Domenica di Pasqua

Una notte...


Ci fu una notte nella quale un popolo indifeso in fuga e incalzato da un esercito potente si trovò pieno di paura chiuso fra il rombo dei carri da guerra che da lontano correvano per ucciderli e una distesa d’acqua, silenziosa come una trappola mortale.

Ci fu una notte di pianto, di paura e di grida: “perché ci hai portato qui, perché ti abbiamo dato retta? Sii maledetto Mosè...”.

Ci fu una notte di tentazione nella quale Mosè pensò, forse, di essersi sbagliato e di aver confuso la sua ambizione con la parola di un Dio che non c’era e che mai aveva parlato.

Ci fu una notte nella quale Dio disse ad un uomo solo: “alza il bastone, stendi la mano sul mare e dividilo”.

Ci fu una notte nella quale un uomo solo, con la sua fede, pochi attimi prima di essere linciato, alzò un bastone nodoso al cielo e la mano sulla distesa d’acqua che iniziava a gonfiarsi.

Ci fu una notte nella quale un uomo solo gridava: “saremo liberi, liberi” a gente che nella rabbia disperata per la paura sapeva solo urlare: “quale libertà? Cos’é la libertà? Stavamo meglio quando eravamo schiavi là in Egitto. Non ci facevano del male e mangiavamo e lavoravamo. Qui siamo venuti per morire. Cos’è la libertà? Dillo, se lo sai.”

Ci fu una notte nella quale un uomo solo, per parlare della libertà alzò un bastone al cielo e stese la mano sul mare perché la libertà era racchiusa in quel gesto di di follia e di coraggio: lasciare il dominio dell’uomo sull’uomo per affidarsi al disegno di un Altro.

Ci fu un giorno che fu come una notte in cui fu alzato o tu alzasti un bastone a forma di croce...

Buona Pasqua

Giovedi santo e Venerdì santo, inseparabili

Giovedì santo e Venerdì santo - anno A


Nell’omelia della messa nella Cena del Signore il Santo Padre (che qui puoi scaricare) propone alla riflessione queste potenti parole: Gesù trasforma la sua Passione in preghiera, in offerta al Padre per gli uomini. Questa trasformazione della sua sofferenza in amore possiede una forza trasformatrice per i doni, nei quali ora Egli dà se stesso. Egli li dà a noi affinché noi e il mondo siamo trasformati.

Noi nel dolore soprattutto quando riteniamo che ci provenga dalla malevolenza degli altri, pensiamo di potercene liberare attraverso il lamento, la pettegola confidenza. Quando riteniamo di aver ricevuto un torto, dopo il lamento, lo sfogo, il brontolamento coviamo sentimenti di rivalsa, di vendetta più o meno esplicitata.

Il Signore ci chiama a una conversione della nostra mentalità.
L’orto del Getsemani, il Calvario, la Croce di per sé non possono essere valori perché sono sofferenza e sofferenza causata dalla malvagità e dall’ingiustizia.
Perché, allora, quel dolore salva, libera, redime? Lo può unicamente per l’offerta che Cristo ne fa, per il fatto che offrendo sé al Padre trasforma quel dolore in Amore.
L’offerta di sé per la quale Cristo trasforma la sofferenza e il dolore in Amore è e diventa una forza trasformante per cui il pane e il vino (Eucaristia) diventano il corpo dato e il sangue versato di Cristo.
Nel ricevere l’eucaristia la medesima forza trasformante di Cristo opera in noi “la nostra stessa trasformazione nella comunione con Cristo”.

Non è detto dunque che il dolore, come il dispiacere, debba essere compagno della confidenza mormorante, dello sfogo e della vendetta e non è neanche detto che fare compagnia al dolore dell’altro comporti solo ascoltare e istigare tali sentimenti.

Amicizia, correzione, compagnia è aiutare a trasformare il dolore in Amore e l’eucaristia ricevuta è nutrimento e forza offerta a questa rinascita.

Essere cristiani e ragionare nella logica del mondo e cioè solo secondo giustizia e diritto slegate e libere dai vincoli d’amore è come credere di essere montanari perché per arrivare a casa si sono prese le scale e non l’ascensore.

Quando uno risorge ci sono anche le bende...

V domenica di Quaresima - anno A


Quando si guarda al cielo, tuffando lo sguardo nel bagliore del sole, tutto viene cancellato da quella luminosità: l’azzurro, la nuvoletta passeggera, la rondine che passa, ma se si prendono degli occhiali opportunamente predisposti, si riesce a vedere tutto ciò che prima la luce infuocata aveva fatto sparire.
Così è anche del sole della Parola che è annunciata nel brano del Vangelo di oggi: mettendo “gli occhiali da sole” si riesce ad ammorbidire la luce forte che promanano le grandi figure di Marta e di Maria e si riesce a vedere qualcosa che prima spariva allo sguardo.
Si riesce a vedere Gesù che dopo aver gridato: “Lazzaro vieni fuori” e ottenuto il suo ritorno in vita dal buio del sepolcro aggiunge:
“Liberatolo e lasciatelo andare”.
Frase brevissima e nel contempo grandiosa e singolare: “liberatelo e lasciatelo andare”.
Dopo il miracolo fra i più grandi che senso ha fermarsi davanti a un sudario e poche bende? Colui che ha avuto la potenza di far tornare in vita un morto non ha più parole perché le bende si sciolgano da sole?
Cristo si ritrae perché, pur facendo tutto, non intende per rispetto nostro e della nostra libertà, fare “oltre”. Gesù, cioè, ci chiama in causa, dichiara di avere bisogno di noi, sia pure per un atto marginale eppure importante.
La vita è tornata, ma nella vita occorre rientrare e per questo occorre abbandonare gli abiti di morte per rimettersi quelli della vita: il simbolo sta a ricordare che se da un lato c’è la grazia, dall’altro, dentro di essa, si deve camminare con le nostre gambe (“Lazzaro esci fuori”) e nella compagnia di fede con le persone che Dio ci dona (“Liberatolo e lasciatelo andare”).
Le considerazioni sono semplici e credo vere, ma può esserci il momento in cui tante parole possono passare per astratte o come richiami forse accettabili, ma pur sempre espressione di un qualcosa di lontano, di molto fumoso per la sua lontananza e incapace, per questo, di ferire o smuovere ciò in cui ormai ci siamo abituati.
Gli “occhiali da sole” che permettono di vedere dentro alla grande luce del sole, però, ci vengono ulteriormente in aiuto perché non hanno finito con le “sorprese” : grazie ad essi, possiamo anche vedere ciò che vedeva Lazzaro quando saltellando si affacciò sulla porta del suo sepolcro.
Lazzaro vide la luce ritagliata nel buio del sepolcro attraverso il varco aperto dalla pietra rotolata via, vide i suoi, risentì il profumo delle cose della sua casa, del pane, degli aromi, vide gli occhi pieni di pianto delle sue sorelle e vide Lui che aveva appena finito di gridare: “Lazzaro vieni fuori”. Quelle cose di sempre, le vide e le sentì come le sentiva prima di morire?

Quando si rinasce, la tazzina di caffè col suo aroma e il volto amato che te la porge sono ancora uguali?
Il problema sta nelle cose, nelle persone che ci circondano o nel rinascere?

il cieco vedente e il vedente cieco

IV domenica di Quaresima - anno A

Gesù vede un cieco.

- Permette che diventi oggetto della sua conversazione con i discepoli.
- Prende della terra, ci sputa sopra e la butta sugli occhi del cieco.
- Dopo averlo sporcato gli dice di andare a lavarsi alla piscina di Siloe.
- Non lo accompagna per aiutarlo a camminare.

Se il cieco avesse pensato che Gesù era un gran cafone perché si permetteva di parlare di lui così come si fa con gli oggetti?

Se poi lo avesse preso per un teppista perché si divertiva a ferirlo moralmente buttandogli della terra, bagnata di saliva, negli occhi ciechi?

Se lo avesse giudicato un mascalzone perché gli aveva detto di andare a lavarsi lasciandolo solo?

Se comprensibilmente, il cieco se ne fosse andato pieno di rancore?

Sarebbe rimasto cieco per sempre.

A lui, invece, è bastata una Parola per andare a lavarsi alla piscina con le orbite degli occhi piene di fango.

Mentre il bastone picchiettava sulle pietre a cercare la via probabilmente alle orecchie sensibili non saranno sfuggite le risa, gli scherni, i giudizi.

Eppure di ticchettio in ticchettio con il suo bastone arriva a quella piscina a bagnarsi, con avida speranza, i suoi occhi spenti.

Una soffiatina, una pezzuolina speciale, qualche leggero sfregamento e si possono inforcare gli occhiali con le lenti accuratamente studiate per i nostri occhi.
Un attimo e noi ci vediamo benissimo, ma per andare dove?


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Se

I domenica di Quaresima - anno A

Si parla, nel brano del vangelo (che puoi trovare qui) di Gesù che viene tentato nel deserto. La fanno da padrone tre grandi “se”: i se del dubbio circa le reali intenzioni di Dio Padre. “Sarà poi così Padre questo Dio che dice di volere il tuo bene?”, è’ un’antica tentazione che troviamo anche nella prima lettura, nel racconto del peccato originale.
Ai “se” Gesù nel deserto oppone il suo grande e sofferto “sì”. Credo che questa faccenda del “se” ci porti a trovare la traccia per leggere i nostri rapporti con Dio.
Se si pensa solo in termini di peccati gravi (mortali) e lievi (veniali) credo che si troverà sempre il modo per scivolare via. Per i peccati gravi, infatti, si avrà sempre modo di renderli lievi con il nostro armamentario di giustificazioni e autosconti unito al fatto che, forse, per fare un peccato mortale occorre un certo impegno non alla portata di tutti...
Per i veniali, poi, ad essi ci si abitua come ci si abitua alla polvere in casa quando la luce del sole la fa emergere anche là dove si era pulito.
Inoltre da un lato il pensare in termini di peccati mortali fa venire in mente il giudizio e il giudice e anche questo incentiva alla difesa e dall’altro il pensare in termini di peccati veniali ci propone una presenza divina che ha un po del “fiscale” così da renderci facile il dire: “ma Dio mi vuole bene e non sta a guardare tutto”.
Se, invece, riportiamo il “peccato” al mondo del “se”, le cose si chiariscono e, soprattutto, si inseriscono nella linea dell’amore.
Infatti la lontananza da Dio inizia sempre con il se che mette in dubbio la sua bontà nei nostri confronti. Quel dubbio circa il suo bene è più facile che ci spinga a chiedere scusa perché non è bello (e immediatamente lo si percepisce) nutrire sospetti nei confronti di chi ci ama.
Ma i “se” in cosa consistono? Solo come esempio: ogni volta che non si segue ciò che il Vangelo suggerisce e facciamo di testa nostra è come se dicessimo: “se non ti ascolto e faccio come penso io, le cose mi andranno meglio” e, quindi, è come se, almeno per quella cosa, mettessimo in dubbio la bontà del Signore nei nostri confronti come se il vangelo non fosse pensato per la nostra felicità.
Altrettanto vale quando ci si lamenta di tutto e di tutti è come se pensassimo che Dio si è dimenticato di noi quando ha voluto che fossimo circondati da quelle persone o situazioni per le quali non nutriamo nessuna cordialità del cuore.

La pista è buona e comunque ci consola il fatto che “il diavolo si allontanò da Lui...”, in Cristo il male non è invincibile!

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Fatica?

IX domenica del tempo ordinario - anno A

Si parla, nel brano del vangelo (che puoi trovare qui) di terreno solido e di terreno sabbioso e di una casa che se costruita sulla roccia si farà stabile e se costruita sulla sabbia si farà prossima alla rovina. Al terreno scelto si accompagna, inevitabile, anche il giudizio: stolto l’edificatore sulla sabbia e saggio chi per fondamenta porrà la roccia.
Il brano è facile e chiaro il messaggio, messaggio che diventa ancora più chiaro facendo un passo indietro, quel passo che ci porta al momento in cui la casa non c’era e si progettava di costruirla.

Quale la differenza fra i due terreni? Risponde un’altra domanda: dove è più facile scavare per fare fondamenta? Nella roccia o nella sabbia?

Armato di paletta qualsiasi piccolo ci dirà che al mare per fare buche e piste per le biglie è d’obbligo la spiaggia, mentre farà pianti e strepiti se il mondo dei grandi andrà scegliendo scogli e pietre.

Ecco la differenza: scavare fondamenta nella roccia comporta fatica e tanta assai.
Di qui il messaggio lieve e quasi nascosto nel bel brano: nel cammino della fede è già nel conto un poco di fatica che essa passi per la preghiera come per il coraggio d’amare.
Non è la fatica a renderci deboli, a tanto potrà solo la paura di essa e lo scandalizzarsi nello scoprirla presente nel nostro cuore.


Righe e colonne per 9 beatitudini... forse 8

IV domenica del tempo ordinario - anno A

Le 9 beatitudini (
che puoi trovare qui) si possono distribuire in modi diversi e tra le possibilità offerte, alcune hanno tutto il peso e la credibilità di studi approfonditi e, quindi, sono le letture più vicine alla realtà.
Senza scientificità, senza alcuna certezza e senza alcuna autorità in grado di suggerire nuovi percorsi o correzioni, mi è venuta in mente un’altra disposizione.

Perché proporla, se non ci sono certezze e competenze? Perché così facendo le beatitudini sono tornate a parlare alla mia vita, quella semplice che faccio tutti i giorni.
Diremo allora che con questo facciamo un week-end a riposare e riconfortarci per tornare poi alla serietà delle cose.

Naturalmente, e questo lo sappiamo, le Beatitudini sono lì a rispondere ad una domanda: cosa vuol dire essere discepoli di Gesù?... Cosa devo “fare”?

E, allora, la disposizione di cui si diceva? La più semplice e la più facile: la prima beatitudine con la seconda, la terza con la quarta e così via fino all’ottava. Fatto questo che rimane? Che la prima della coppia di beatitudini propone il “metodo” e la seconda il “contenuto”.
Proviamo con un paio di esempi, poi vai avanti tu.

La prima beatitudine letta con la seconda:
3«Beati i poveri in spirito,
perché di essi è il regno dei cieli.
4Beati quelli che sono nel pianto,
perché saranno consolati.


Partiamo dalla seconda (il “contenuto”): occorre essere nel pianto cioè occorre essere in lutto, di che lutto si tratta? Lo dice Matteo usando lo stesso termine quando, per difendere i suoi discepoli accusati di non fare digiuno, dice: “Possono gli invitati a nozze essere in lutto finché lo sposo è con loro?...” (9,15).
Il discepolo, tu, se vuoi seguire Gesù, devi essere in “lutto” perché sai che Gesù è con te, ma non lo è in pienezza come lo sarà alla fine dei tempi, infatti ti accorgi che è per te fatica pregare, stare in chiesa e nei tuoi giorni come nella tua preghiera talvolta senti il Signore e talvolta no. In “lutto”, poi, anche perché intorno a te c’è un mondo che vive e si riferisce a criteri dove Gesù e la sua parola sembrano non avere più casa e neppure il diritto di esistere.
Se questo è il contenuto occorre un metodo che lo renda atteggiamento sincero e non vuoto brontolamento, o distacco presuntuoso e ideologico dal mondo degli altri oppure espressione della paura di ciò che è solo diverso da noi. Il “metodo” lo indica la prima beatitudine insegnandoti che tutto si fa vero a patto che il tuo cuore sia veramente povero, cioè affidato a Dio e non alla tua visione delle cose spacciata per la visione di Dio.

Forse questa coppia è risultata un poco difficile, ma le altre due sono molto più evidenti:
5Beati i miti,
perché avranno in eredità la terra.
6Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia,
perché saranno saziati.

Come amico di Gesù devi seguire la logica della giustizia, la giustizia di Dio che consiste nella sua fedeltà a sé e alla sua promessa, al suo disegno di salvezza. Sarai giusto se sarai fedele e in questa fedeltà sarai anche giusto nei confronti del fratello e collaborerai a costruire una società più giusta.
Di qui il metodo: la mitezza. E cosa possa essere la mitezza, lo dice Cristo stesso: “imparate da me che sono mite e umile di cuore” (Matteo 11,29). Dunque, anche qui, non la giustizia frutto dello schema umano, la tua giustizia per cui tu hai ragione e gli altri torto, non la tua giustizia che spesso nel giudizio ferisce ed emargina, ma la giustizia che è Cristo stesso cioè mite cioè frutto del tuo atto d’amore che in Cristo è pronto a consumarsi per l’altro.

Così anche per le altre due coppie la quinta e la sesta beatitudine:
7Beati i misericordiosi,
perché troveranno misericordia.
8Beati i puri di cuore,
perché vedranno Dio.

Il contenuto che fa di te un discepolo è la purezza del cuore, ma non una purezza farisaica che ti mette su un piedistallo, quanto una purezza, cioè una coerenza, una lealtà, una trasparenza nel vivere in rapporto con te stesso, con Dio, con gli altri e con i valori della vita vissuti nella misericordia, nel cuore dato, nella compassione.
“Severo”, dunque, con te stesso, “severo” nell’indicare le cose con il loro nome: peccato per peccato, male per male, e infinitamente misericordioso, innamorato dell’uomo che cammina e arranca nella sua via attraverso la vita, nell’inseguimento del sogno del Bene talvolta confuso e scambiato con dei beni con la
b minuscola.

Il gioco è ormai fatto e puoi provare tu con le rimanenti con la possibilità, inoltre, di mantenere le coppie ma capovolgendo i termini. Il contenuto lo puoi fare diventare il metodo e il metodo il contenuto. Per esempio, tornando alla prima beatitudine, per essere discepoli occorre essere poveri cioè affidati al Signore, ma questo affidamento non potrebbe essere sincero se non ci fosse (metodo) il lutto cioè il dolore per la nostra lontananza da Lui e per la lontananza da Lui del mondo.
Buon “divertimento”, ma, alla fine, rivoltale di qui, rivoltale di là, le beatitudini chiedono di diventare la traccia della nostra vita, via che ci fa essere discepoli di Cristo, ma questa è... un’altra avventura.